Le gare

Le gare. Ciclicamente ritorniamo a parlare di questo argomento. Un ex agonista, quale io sono, e la ritrosia come maestro verso questo aspetto così importante del mondo del karate. Contraddizioni.

 

Quest’anno la gran parte degli allievi del nostro dojo ha scelto- perché da noi si sceglie- di partecipare alle gare, con entusiasmo tra l’altro. Quando ero un agonista il tatami era un’esperienza per pochissimi, erano rari coloro che volevano misurarsi, allenarsi, gratificazioni pochissime, nessun rimborso quando ci muovevamo in giro per l’Italia o l’Europa. Le medaglie spesso erano riciclate da altre gare, eppure con grande passione si andava ad allenarsi, a gareggiare. L’esperienza del combattimento era l’unica scuola vera. La preparazione spesso aveva come compagno un albero sul quale scaricare calci e pugni. Mia nonna mi chiedeva se ero pagato per prenderle, io le rispondevo: dut di bant none.

Così, alla vigilia delle gare di Talmassons, mi pongo la domanda del perché si dovrebbe combattere o perché, malgrado le mie resistenze interne, mi sforzo di stimolare (insieme a Chiara) soprattutto i bambini a farle. Sgombro subito la strada dalla più banale delle risposte: il prestigio. Il mio Karate non si misura su quante medaglie portiamo a casa o su quante volte ci possono nominare durante i tornei.

La gara è difficile, lo dico sempre a chi decide di partecipare. Sul tatami si è soli, totalmente soli. In palestra ci si prepara insieme, ma lì il capitano della nave è uno solo, malgrado le voci, malgrado la preparazione o l’appoggio di chi è a bordo tatami. Le proprie paure, i propri limiti, amplificati da un avversario o da quattro giudici che danno i loro responsi, assieme a un corollario di persone che guardano da fuori. Mettere insieme un quadro simile rende l’idea di cosa si debba affrontare da dentro prima che da fuori. Non ci sono scuse, chi decide come gareggiare segna la propria strada e non ha possibilità alcuna di un’attenuante. Il tatami ci misura, ancora prima del metallo della medaglia.

 

Un pomeriggio ho riflettuto molto su come spiegare ai bambini ciò che ritenevo fosse importante stabilire come obiettivo primario, tante parole, concetti, ma i miei interlocutori sono severi e la comunicazione doveva essere ancora più chiara delle parole. Così ho domandato a Benedetta di aiutarmi, le ho chiesto di restare su una gamba sola e appoggiarsi alla mia spalla. Così fece. Mi spostai e lei perse l’equilibrio. Le chiesi di rifare l’esercizio, appoggiando ancora la mano sulla mia spalla, ma rimanendo in equilibrio su di se, spostandomi, lei non cadde.

Il centro di tutto non deve essere fuori, deve essere, partire da dentro. La gara quindi non serve per dimostrare nulla a coloro che ci guardano, bensì serve a spingere quel nostro centro a crescere ancora, misurarsi sì, ma per crescere noi, affrontando le paure, i nostri limiti mentali e fisici.

La gara, il Karate allora diventa metafora concreta di vita. Sulle prove di tempo del percorso, ogni bambino misurava il proprio tempo non il tempo in relazione all’altro, se la prima volta faceva 35 secondi, la seconda dovevano essere 34, la gara prima che fuori, avveniva dentro di sé. In questo modo accetto la gara, perché il risultato non premia l’atleta, ma fa crescere l’uomo o la donna che un domani loro saranno.

Buone gare…