Sondaggi e persone

Dei sondaggi ho sempre dubitato, capaci sì di fare un’istantanea, senza però riuscire a specificare. Al massimo riescono a essere strumenti indicativi di una tendenza, ma la realtà è sempre più complessa o profonda. Famoso l’esempio di due persone, dove se una percepisce un reddito di un milione di euro e l’altra è nulla tenente, la statistica riporterebbe che in due avrebbero la media di mezzo milione testa, una realtà inesistente.

Anche la cultura- nel termine più ampio- nella quale viviamo, incide su come è orientato il nostro vivere. Una volta un oggetto mal funzionate si riparava, oggi si sostituisce con uno nuovo. La mia non è un’analisi sociologica, quanto un’introduzione a un “esperimento” che mi sono permesso di fare, un ascolto attivo, una verifica. Una sera a Karate ho fatto sedere i bambini in cerchio e ho domandato loro che esprimessero liberamente le ragioni per cui erano lì piuttosto che altrove. Mi ponevo la questione di interloquire almeno minimamente con quei bambini che arrivano nel dojo, senza velleità di analisi, quanto di puro ascolto. Qual era la loro motivazione? Così tutti, preso il proprio tempo, hanno risposto a modo loro. La stragrande maggioranza ha affermato: perché ci sono i miei amici; perché possiamo stare insieme e giocare; per sfogarsi. Altri, pochi, per imparare a difendersi; una, per imparare a fare la ruota. Naturalmente l’allegro gruppetto non ha risparmiato di chiedere a me quale fosse stata la mia motivazione nell’iniziare.

 

Questo bisogno di stare insieme, fare la cosa più normale del mondo per un bambino, giocare, mi ha colpito. Lo sapevo, ho sempre avvertito questa loro dimensione, ma ogni tanto qualche dubbio è utile porselo. Vedo altre realtà, dove l’autostima del bambino è costruita sulle gare, sul risultato, legittimo in un mondo così competitivo, ma legittimo non significa per forza giusto, non a quell’età.

Esiste, infatti, una carta internazionale del bambino e lo sport dell’UNESCO, anno 1992 (http://www.amicosport.com/public/contenuti/spiegazionecartadiritti.pdf), la quale dice cose che in pochi luoghi vedo essere applicata, non ultima il diritto a non essere un campione. Eppure il “brodo culturale” nel quale vivo e viviamo non pare considerare, se non in minima parte e spesso in termini retorici più che pratici, questi aspetti.

 

Ogni tanto mi stanco di “pensare troppo”, tuttavia la ricerca di una via che si sente da dentro è un fatto necessario a livello personale e a maggior ragione quando poi si vuole costruire un’esperienza che coinvolga altre persone, cosa dare? Io rimango sempre quello, ma gli interlocutori cambiano: un bambino non è un ragazzo, un ragazzo non è un adulto, un adulto non è per forza un agonista, un agonista non è un amatore, un modello unico non funziona, un buon Karate riesce ad adattarsi.

 

Se formassimo campioni, avremmo una traccia chiara sul come operare, se volessimo del budoka cominceremo a sfrondare le persone che abbiamo davanti secondo dei canoni di dura selezione, ma l’immagine e le ragioni di quei bambini provocano molto, dicono molto.

Continuo a credere che la serenità di un bambino, futuro adulto, sia di gran lunga più importante di una medaglia, stare bene in un posto significa concedersi il tempo per crescere capirsi e scegliere, magari anche altre strade, ma partendo da un luogo dove non si coltivino in serra delle piantine in formato standard, quanto un posto dove si sappia aspettare che ognuno mostri i suoi frutti e si senta realizzato nello scoprirsi unico e importante al di là dei risultati sportivi o della precisione millimetrica della tecnica.

 

Se la radice è buona sarà buono il risultato, se il risultato modifica la radice stiamo snaturando chi con fiducia arriva nel nostro dojo. Quanto scritto non ha la presunzione di essere l’interpretazione giusta di chi pratica le arti marziali, ne sono cosciente, ma allo stesso tempo introduce altri elementi che ci obbligano a metterci in discussione aggiungendovi la nostra cultura di appartenenza che non riceve un buon servizio se altresì vogliamo scimiottare una cultura che non possiamo capire fino in fondo come quella giapponese. Si ricercano i semi per poi elaborarli non il prodotto finale elaborato da altri. Al concetto di agonismo esasperato va affiancata la pedagogia per creare un equilibrio. Alla cintura che uno porta stretta attorno ai propri fianchi mettiamoci vicino il sorriso di un bambino che potrà anche diventare un khiai, senza mai dimenticarsi di chiedersi quale sia la strada da perseguire.

 

A chi come me educa e insegna allego una piccola frase, una poesia che Fabrizio De Andrè cantava in una delle sue canzoni: “Tu che mi ascolti, insegnami”.