Il bambino e il campione

Due iperbole, come Il bandito e il campionecantata da De Gregori o Il vecchio e il bambinodi Guccini, due mondi uniti e totalmente diversi.

Il bambino all’inizio della propria strada, il campion all’apice. Il quel giorno della foto a Lignano rividi Davide Benetello, un nome per molti, ma un’icona per il karate regionale e mondiale, poiché può vantare nel kumitè titoli mondiali, europei, nazionali sia a squadre che individuali. Egli era uno di quei ragazzi, che allora- negli anni fine ottanta, inizi novanta- numerosi si muovevano come sciami d’api a gareggiare tra Udine, Lestizza, Monfalcone e pochi altri posti in Friuli.

Oggi Davide non è più un atleta ma siede nel Comitato Olimpico come consigliere e promotore a spron battuto del karate olimpico. Il rivederlo mi ha portato alla mente i tempi che furono. L’ultima volta che lo vidi era da poco campione Mondiale e gareggiava come facevo io, agli open di Milano, correva l’anno 1994. Al tempo gli atleti della regione che gareggiavano nelle nazionali maggiori non erano pochi in proporzione al nostro territorio: Benetello, Oggianu, Vando, Sodero, Roiatti, Perini; per cui non era difficile riconoscersi e salutarsi, pure se i mondi ormai erano anni luce distanti. Io arrivavo a Milano dopo una notte di guida in autostrada con trecento chilometri di nebbia a sessanta km/h; loro arrivati due giorni prima con le rispettive squadre sportive militari. I confronti in questi tornei non sono equi, un pò come quando le risorse del Milan calcio incontrano quelle del Sassuolo. In questi incontri ci sono, di fatto, dei professionisti pagati con tanto di equipe a seguito (allenatori, massaggiatori, fisioterapisti, nutrizionisti, etc.), dall’altra…gli amatori armati di tante cioccolate e grandi occhiaie. Così le distanze si pongono per il livello tecnico, atletico, logistico, per le medaglie e la conseguente disparità si vede, con rarissime eccezioni. Se un karateka iscritto a una ASD, al di fuori di questi circuiti si distingue, viene cooptato e reclutato, semplicemente. Io non ricordo un campione titolato che non abbia avuto la divisa, almeno in Italia.

Tuttavia ho sempre considerato prima la relazione che il ruolo e quindi anche se loro erano nell’olimpo e io no, non mancavo di salutarli, non certo come i cagnolini scodinzolanti dei cartoni animati, ma con il piacere di aver condiviso qualcosa all’inizio con loro.

Il campione era ormai lontano anni luce, per cui le notizie che giungevano da quegli spazi siderali erano misurati tutti in medaglie. La domanda più scontata era: cosa è arrivato? Come si è piazzato? Oltre difficilmente si andava nel discorso. Se vinci esisti, se perdi sparisci. 

Altri compagni, amici ebbero modo di girare con la nazionale, ma la nazionale è solo per chi porta a casa risultato, perché anche i gruppi sportivi delle forze armate misurano il loro prestigio sulle medaglie. La medaglia come simbolo, ma basta solo questo a definire un campione? La personalità, la generosità, la maturità, il dare un apporto più grande a ciò che si ha avuto occasione di poter fare. Questo è più raro. Diffido da sempre di chi mi snocciola il proprio elenco di risultati, perché per tanta luce c’è sempre un prezzo, un’ombra. Per uno che arriva molti spariscono, è un gioco che mi ha sempre lasciato perplesso, troppo vicino al concetto produttivo di una fabbrica e troppo distante dalle idealità veicola dallo sport. Quindi, “Davide Benetello” è un campione? Lo è, per me lo è, ma non per le medaglie, non solo per quelle, lo è per il coraggio, per la passione che all’inizio lo spingeva a fare per tre volte alla settimana sessanta chilometri tra Monfalcone e Udine per potersi allenare insieme a Oggianu senior e junior. Lo è anche Agostino Nonnini campione nazionale a squadre che si allenava quattro o cinque volte alla settimana dopo aver lavorato in cantiere come muratore a Buttrio, senza divisa o paga. Lo è Michele Roiatti che dopo aver studiato e aiutato nell’azienda agricola i suoi, partiva a Basiliano o a Udine col motorino con qualsiasi tempo per fare…karate. Lo sono Fabrizio Puntin, Adriano Mesiano. Lo erano, lo sono, tutti quelli che si sono dannati l’anima, non per una medaglia ma per la passione e la volontà di voler superare i propri limiti, come una sorta di kata esistenziale. Umiltà e passione. Poi quando la medaglia è divenuta l’unico elemento di valutazione, io non ho più sentito questa energia interiore palpitare, un po’come un musicista che suona per compiacere il pubblico pagante, e raramente per esprimere sé stesso. Combattere in stato di grazia non implica per forza un risultato esteriore.

Questi campioni li ho ritrovati tali dopo il loro percorso agonistico, spogli delle loro medaglie, con un ego forse ridimensionato (sic transit gloria mundi), ma ritornati con passione al karate e di nuovo, con umiltà. Nella foto vediamo Davide Benetello che si abbassa all’altezza di Diego, il campione e il bambino, l’alfa e l’omega. Il tatami nell’ultimo stage di Lignano di tre anni fa, lo metteva giù Michele Roiatti con un altro suo ex compagno di nazionale, passione e umiltà, di nuovo, di nuovo campioni.