Quello che NON siamo

E’ di questi giorni la triste vicenda del ragazzo che in provincia di Roma è stato massacrato di botte da un gruppo di altri ragazzi, alcuni di essi praticavano l’MMA (Arte Marziale Mista).

Non è necessario commentare oltre, ogni parola in più su quest’atto barbaro, incivile e vile si commenta da solo. Credo sia giusto entrare nel merito di ciò che un’Arte Marziale o uno sport da combattimento possano evocare in un individuo, o come preferisco dire, a cosa possono educere/ educare. Mi sento di poter affermare che per praticare non basta dire che lo si fa bene, soprattutto bisogna intendersi cosa significhi quel “bene”.

 

Nei miei ricordi di agonista, ricordo che in alcuni angoli del torneo c’erano karateki che si prendevano a sberle per caricarsi, noi, più ingenui, e forse più naif, ridavamo di quelle corbellerie. Si saliva sul tatami, e si dava il 110% a volte si vinceva, altre si perdeva. Un pugno di ricordo ce lo portavamo sempre a casa e di certo ne lasciavamo pure noi in pegno, ma alla fine dell’incontro il nostro avversario era un amico al quale chiedere scusa se c’era stato un impeto eccessivo.

C’era un contesto nel quale la nostra aggressività e la nostra paura si esprimevano, e quel luogo aveva i confini del tatami. Non ricordo mai di aver visto infierire un karateka sull’altro, il controllo della tecnica insieme a quello emotivo.  Quell’emozione ci rimaneva dentro e ci interrogava.

 

Una cosa che istintivamente mi colpiva durante gli allenamenti era l’attenzione alla tecnica e molto meno a ciò che sembrava marginale come il saluto. Il risultato palese era orientato alla gara.

Il tempo mi ha portato ad appendere i guanti di gara al muro e chiedermi cosa trasmettere, come insegnare. Mi piace verificare tutti questi miei pensieri, e per farlo non ho che da chiedere, domandando qual è la prima cosa che i miei allievi abbiano imparato, e la risposta è: il saluto.

 

Il saluto è il condensato del rispetto, della propria integrità e di quella altrui. I Kumitè non sono la lotta che definisce il più forte, quanto il palcoscenico dove mettere in atto le nostre paure, i nostri limiti e cercare di andare oltre in un nuovo equilibrio. I Kata sono ancora più intensi e intimi, dobbiamo letteralmente confrontarci a uno specchio e la medaglia non è d’oro, quanto approfondire la nostra conoscenza senza parole, col sudore, fatica e silenzio, mettendo da parte il proprio ego.

 

Così la notizia ascoltata alla radio dell’assassinio brutale di quel ragazzo, mi ha ammutolito, lasciandomi più domande che risposte, ma allo stesso tempo la certezza che nel Dojo dove insegno, il saluto, il rispetto dell’altro e di sé saranno sempre la prima cosa che proverò a insegnare.